
Nuova programmazione al Cinema Esperia, tre nuovi film BASTIA UMBRA – Tre nuovi film al Cinema Esperia. Da giovedì per tutta la settimana arriva in programmazione il nuovo film con Paola Cortellesi e Antonio Albanese coppia che scoppia in Mamma o papà? Marito e moglie in procinto di divorziare che vorrebbero scaricare i figli sull’altro coniuge ma non sarà per niente facile e sopratutto si metteranno in situazioni tragicomiche esilaranti. Una coppia comica da non perdere!
Venerdì, sabato e domenica arrivano al Cinema Esperia i mattoncini più famosi del mondo dopo il successo di Lego movie con la nuova avventura: Lego Batman – il film. In una Gotham City completamente Lego l’uomo pipistrello ed i suoi amici e nemici si cimentano in una serie di funamboliche avventure.
Martedì e mercoledì per il cinema d’autore in programmazione serale Arrival. Il film di fantascienza più interessante degli ultimi anni dove il punto di contatto tra uomini e alieni è il linguaggio e l’uso che se ne fa per definire il mondo e la vita. Esteticamente strabiliante ed emotivamente intenso.
Un po’ di tutto al Cinema Esperia!
ARRIVAL!
Louise Banks, linguista di fama mondiale, è madre inconsolabile di una figlia morta prematuramente. Ma quello che crede la fine è invece un inizio. L’inizio di una storia straordinaria. Nel mondo galleggiano dodici navi aliene in attesa di contatto. Eccellenza in materia, Louise è reclutata dall’esercito degli Stati Uniti insieme al fisico teorico Ian Donnelly. La missione è quella di penetrare il monumentale monolite e ‘interrogare’ gli extraterrestri sulle loro intenzioni. Ma l’incarico si rivela molto presto complesso e Louise dovrà trovare un alfabeto comune per costruire un dialogo con l’altro. Il mondo fuori intanto impazzisce e le potenze mondiali dichiarano guerra all’indecifrabile alieno.
Senza rivoluzionare l’immaginario della science-fiction, l’autore canadese evoca un concetto e gli dona una forma. Dalle parti di Spielberg (Incontri ravvicinati del terzo tipo) e di Zemeckis (Contact) piuttosto che dei blockbuster di Roland Emmerich, Arrival non affronta la questione della fine del mondo, niente battaglie sanguinose o confronti militari, uomini e alieni questa volta provano a comunicare e a comprendersi.
Se il tema è dato (e visto), Villeneuve aggiunge una dimensione supplementare interrogandosi sulla nostra maniera di comunicare. In attesa di ultimare il sequel di Blade Runner, debutta nel genere e realizza un dramma fantascientifico intimo che contempla il côté umano, già al cuore di Gravity e di Interstellar.
Oggetto insolito, come la sua astronave ovale e gravida di futuro, Arrival avanza in un silenzio opaco e negli occhi liquidi di Amy Adams, riempiendo con la parola il vuoto muto di Gravity. Perché la lingua è il motore di un poema spazio-temporale che non impiega le sue straordinarie abilità tecniche per considerazioni metafisiche ma disegna (letteralmente e più dimessamente) una metafora narrativa ipnotica, spostando il significato e covandolo in un ventre materno. Una misteriosa struttura ovale che ha il colore e la vibrazione perturbante del monolite kubrickiano. Se in Gravity la protagonista è in immersione totale nello spazio e prova a ricongiungersi con la terra madre, in Arrival l’eroina di Amy Adams, sospesa tra materia nera e luce bianca, tra verticalità e orizzontalità che si invertono abolendosi mutualmente nella pancia dell’astronave, interpella l’altro da sé e ‘prende contatto’ con la lingua madre.
La tessitura iniziale della nostra vita, dei nostri vissuti, il copione che ci portiamo dentro, il pensiero che deve trovare una rappresentazione, il nodo che deve essere sciolto e riconosciuto, lasciando la presa sul passato e aprendo un nuovo possibile percorso di esistenza. Colpite dal medesimo lutto, riducono la gravezza nell’assenza di gravità e in una storia di rinascita. Lungo linee temporali e sospesa in una cortina opalescente, la più celeste delle action woman descrive una coreografia di ‘apertura’, concepisce un alfabeto rotondo e trascrive ideogrammi circolari, una lingua: il suo e il loro punto di partenza nel mondo. Quello che la ritrova e ritrova la sua visione, ridisegnando il suo destino e avviandola a una nuova avventura di vita.
Portatrice terrena di un tempo futuro ancora a noi sconosciuto, Louise è amore in azione che piega gli eserciti, traduce la lallazione aliena e chiude il cerchio. Figura geometrica perfetta di un’opera che scarta la rappresentazione antropomorfica dell’extraterrestre e inventa una forma di intelligenza aliena singolare, a cui replica il volto di un essere umano capace di empatia per la differenza. La differenza fondamentale non quella ‘cosmetica’. E così sul nostro cinema antropocentrico abituato a parlare inglese a umanoidi con le orecchie a punta e sul nostro pianeta piegato dai cambiamenti climatici ed estinto di specie viventi che non abbiamo nemmeno ancora censito, galleggia una vita aliena che emette inchiostro e segni sciolti su uno schermo bianco, producendo l’essenziale bicromia della scrittura. Essenziale perché non può darsi il nero della linea progressiva senza il bianco dello spazio, il campo puramente esperienziale della pagina dove Susan incontra l’altro e sancisce la convivenza.
Lego Batman -il film
Gotham City. Dopo l’ennesimo successo di Batman contro Joker, il commissario di polizia Jim Gordon lascia l’incarico alla figlia Barbara, che ha intenzione di voltare pagina con la dipendenza di Gotham dal vigilante mascherato. Per dimostrare a tutti di essere insostituibile, Batman imprigiona Joker nella Zona Fantasma, la prigione spaziale in cui Superman relega i peggiori criminali dell’Universo. Peccato che il piano di Joker prevedesse proprio tutto questo…
Uno sforzo apparentemente sovrumano di conciliare le esigenze della computer graphics con quelle del vintage per eccellenza del mondo ludico, i mattoncini Lego, con contorno di ironia dissacrante e celebrazione dei molti brand coinvolti nell’iniziativa. In pratica la realizzazione del sogno di ogni bambino, quello di creare mondi a catena con un mash up di personaggi di fantasia e realmente esistiti, sotto forma di un film godibile, quando non esaltante. Un cocktail riuscito talmente bene da piacere a bimbi e critici insieme, spingendo firme eccellenti a parlare di rielaborazione crossmediale del linguaggio cinematografico.
Definire Lego Batman uno spin-off dell’esperienza di The Lego Movie pare riduttivo, già a partire dal commento che il vocione baritonale del Cavaliere Oscuro – Will Arnett nella versione originale, Claudio Santamaria in quella italiana – riserva ai loghi delle case di produzione e distribuzione coinvolte.
Perché questo capitolo intende andare addirittura oltre. La sceneggiatura di Grahame-Smith, McKenna e soci gioca con i brand – Warner Bros., DC Comics, Il signore degli anelli, ecc. – per meglio valorizzarli, dimostrando di aver compreso appieno come oggi l’importante sia non prendersi troppo sul serio e mascherare il più possibile la presenza del marketing (Deadpool docet). The Lego Batman lascia solo intravedere il lato commerciale della propria natura, annegandolo in una storia godibile di per sé e contraddistinta da una miriade di riferimenti a serie, film e manie del passato.
Di fronte al fatto di vedere nello stesso film Sauron, Voldemort, la Strega Cattiva dell’Ovest, Godzilla e King Kong, pochi possono resistere, a meno che non abbiano soffocato il fanciullino interiore. Tutti (ri)troveranno qualche ricordo sopito in Lego Batman, nessuno (forse) riuscirà ad afferrarli tutti. Ma non ha importanza, in un’opera talmente densa di rimandi da arrivare quasi ad affaticare lo spettatore: i più piccoli si lasceranno trascinare dalle acrobazie di Batman e soci e dai gadget che poi si faranno regalare dal babbo, ma rinunceranno presto a comprendere tutto ciò che viene detto e visualizzato.
Quel che più stupisce riguarda le “performance” su cui Lego Batman ha addirittura superato l’esperimento originario: le trame e sottotrame, i personaggi anche solo sfiorati e le contorsioni narrative sono aumentati ulteriormente, generando un flusso di informazioni impressionante da recepire a questa velocità. Ma dove The Lego Movie manteneva una coesione pressoché perfetta tra le sue parti, lo spin-off supereroistico esagera nell’ultimo segmento, in cui si avverte la prolissità e la presenza di almeno un controfinale di troppo.
Fino a lì, però, Lego Batman è un’esperienza quasi irresistibile, che dà il suo meglio quando sottopone Batman a una peculiare seduta psicanalitica, indagando nel suo privato come in nessun’altra trasposizione precedente e mettendo a nudo le molteplici contraddizioni del personaggio. Lego Batman accetta anche la sfida del sottotesto omoerotico, che accompagna da sempre la figura del Pipistrello: scegliendo di ribaltare da Robin su Joker la carica di bromance, Chris MacKay riesce a portare a casa una morale più tradizionalista e tranquillizzante che mai, con il bisbetico infine domato e costretto ad accettare di appartenere a una famiglia, per quanto peculiare e allargata.
Da applausi il doppiaggio di Claudio Santamaria, che rende fedelmente le sfumature di Arnett, mentre si rivela disastrosa la scelta di affidare la voce femminile (Barbara Gordon) a Geppi Cucciari, inadeguata per tono, accento e partecipazione emotiva.
Mamma o papà?
Madri e padri non si nasce ma si diventa ed essere capitani di un’arca che trasporta in mezzo ai flutti dell’infanzia e al diluvio dell’adolescenza due, tre o più esemplari della razza umana è una missione per cui non tutti sono portati. Se poi crescere i figli significa diventare autisti, cuochi e intrattenitori, e rinunciare alle proprie legittime ambizioni professionali, ecco che fare i genitori può diventare un peso, una costrizione, un claustrofobico inferno dove le fiamme – alimentate da atavici sensi di colpa legati a condizionamenti sociali e culturali – avvampano di continuo.
In questo scenario fosco e desolante si muovono con rassegnazione i protagonisti del nuovo film di Riccardo Milani, una commedia che si fa irriverente e quasi nera e che prima di ogni altra cosa dovrebbe proprio guadagnarsi l’appellativo di “onesta” perché è stata pensata, scritta e girata in un paese dove la famiglia è sacra, anche se poi la fonte di ispirazione è il film francese del 2015 Maman ou papa?, ripensato dal regista insieme a Paola Cortellesi e Giulia Calenda. Onesta e controcorrente (o di rottura), per dirla tutta, visto che ci presenta una mamma non da Mulino Bianco che ha l’ardire di fumare (e qui la penna della Cortellesi – “donna pro donne” – è ben visibile) e visto che, invece di lottare per l’affidamento esclusivo dei figli, il signor Vignali e la signora Mozzati vorrebbero essere temporaneamente privati di ogni responsabilità, per poter finalmente fare il viaggio di lavoro su cui fantasticano da sempre.
E poi – altra felice e coraggiosa intuizione da parte degli sceneggiatori – ci troviamo di fronte a una coppia che decide di lasciarsi non per tradimenti, litigi o differenze inconciliabili, ma semplicemente per noia e per il desiderio più che legittimo di non trascorrere altre serate a farsi compagnia davanti alla televisione, sperando magari in una nuova passione o in un’autonomia a 360 gradi in cui riscoprire un rinnovato sé.
Che poi i due attori principali siano esilaranti non c’è dubbio, e straordinario è il contributo di Carlo Buccirosso, signore e padrone (insieme alla Cortellesi) di una sequenza a cena che da sola vale la visione del film, ma siccome Mamma o papà? è anche una storia d’amore – cosa importantissima per Milani – i mostri alla fine non sono abbastanza mostri e il peperoncino acquista il sapore dello zucchero. Per fortuna, i ragazzini rimangono piuttosto insopportabili dal primo all’ultimo fotogramma, facendo guadagnare in realismo una storia che, sfiorata l’iperbole, ritorna fotografia di un paese indeciso se entrare, fra le pareti domestiche, nella stanza del compromesso, del sacrificio oppure dell’egoismo.
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